A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro
Nello scorso articolo abbiamo esaminato la storia del borgo, e siamo giunti
al quattordicesimo secolo. Ad esso segue un periodo di cui non si hanno notizie
certe, se non che il luogo cadde nell'anonimato, con conseguente degrado
degli edifici.
L'ultima testimonianza storica legata a Nosedo risale al 1848: la sera
del 4 agosto il conte Salasco, che avrebbe poi dato il nome al celebre
armistizio, si recò, accompagnato dai generali Lazzari e Rossi, verso San
Donato, ove avrebbe incontrato il maresciallo Radetzky onde parlamentare.
Percorrendo via San Dionigi, proprio all'altezza delle Cascine di Nosedo
i tre finirono sotto il fuoco dei fucili degli austriaci che, incuranti della
bandiera bianca (illuminata da un'apposita lanterna) cercavano di impedire
l'armistizio.
Che cosa è rimasto di Nosedo e della sua storia ai giorni nostri? Un certo
numero di cascine, a partire da quella che porta il nome del borgo, sita al
termine di viale Omero, fino a quelle distribuite lungo la via Fabio Massimo e
al principio del tratto di via San Dionigi che va da viale Omero a Chiaravalle.
Esse ci testimoniano il passato rurale del borgo, già ricordato in questi
articoli.
Ma il gioiello del borgo, tuttora visibile, è senza dubbio l'oratorio dei
Santi Filippo e Giacomo, sito nei pressi della cascina all'angolo tra le vie
Fabio Massimo e San Dionigi. Originariamente questa chiesa, che pare sia sorta
nel sesto secolo nel luogo ove si trovava precedentemente un tempietto pagano,
era dedicata a San Giorgio (come indicato in un documento del 1277), mentre nel
1291 assunse la intitolazione a San Giacomo e quindi, in via definitiva, quella
ai Santi Filippo e Giacomo.
Una leggenda che si tramanda sostiene che la chiesetta originaria ospitò
le spoglie del vescovo Onorato (vissuto nel VI secolo e citato nello scorso
articolo) finchè queste vennero traslate nella basilica milanese di
Sant'Eustorgio.
All'interno, sulla parete absidale, si trova un rarissimo affresco del
tardo Trecento: un "Cristo benedicente" inserito in un ovale, attorniato da
santi ed angeli, al di sopra del quale una fascia a motivi floreali è periodata
da volti di santi, inscritti in circonferenze.
La fuga di angeli su entrambi i lati copriva anche le pareti laterali, come è
tuttora possibile intuire dalle tracce di affresco sulle pareti laterali, in
particolare la parete destra.
Al di sopra, è visibile la travatura originaria del soffitto, protetta come
l'affresco da una controsoffittatura che ne ha consentito la conservazione fino
ai nostri giorni.
Notevoli anche alcuni manufatti in marmo: l'altare, su cui è stato posto
un dipinto di epoca recente, la balaustra, che separa l'area destinata al
celebrante da quella destinata al pubblico; la pila dell'acqua santa, sulla
destra entrando, attorniata da piante fiorite, ed il piccolo gradevole
bassorilievo raffigurante San Giovanni Battista, posto sulla parete absidale.
Un discorso a parte meritano le lapidi, tutte poste sulla controfacciata:
due sono ottocentesche, e ricordano il restauro eseguito nel 1835 dal marchese
di Persia, Giuseppe Parravicini, e il privilegio della Messa festiva concesso
l'anno successivo ai proprietari terrieri.
Una di esse è invece paleocristiana: risale al 536, e fa riferimento alla
sepoltura di un certo Car... (il nome è solo parzialmente leggibile, ed anche
la erre potrebbe essere scambiata per una effe), morto a sessantatrè anni
durante il consolato di Paolino il Giovane (definito nella lapide "vir
clarissimus", ossia personaggio molto noto).