Il Vigentino (I)

A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro

Siamo pervenuti, con gli scorsi articoli, al confine del centro abitato sulla via Ripamonti; entrando in città potrebbe sembrare che le tracce del nostro passato rurale si perdano dietro a immensi palazzi di vetro; ed invece, seppure nascoste, rimangono numerose testimonianze di quando la via, un tempo detta Strada Vigentina, si estendeva nel mezzo di un territorio rurale, punteggiato qua e là di cascine ma per lo più consistente in campi a perdita d’occhio.
Entrando in città e superato il semaforo di via Pampuri e Chopin, vale la pena di ricordare la grande ed elegante cascina che sorgeva nella via Albinioni, che venne nel settembre 1990 occupata da extracomunitari, sgomberata nel mese di aprile 1991 e quindi demolita, e l’Osteria del Pesce, di origine seicentesca, distrutta all’atto della costruzione del quartiere Madonna di Fatima.
Superato il semaforo di via Val di Sole, si nota che la strada si restringe per passare in mezzo ad un piccolo borgo: si tratta del Vigentino, di cui non è rimasta alcuna traccia rurale, ma si sono conservati alcuni antichi edifici a un piano che ci ricordano il tempo in cui Vigentino era un comune a sè stante.
In realtà, la storia di Vigentino risale a molto tempo prima: infatti, già nel 1164 vi sono tracce di un Veglantino (divenuto nel 1195 Vingiantino); il nome appare alquanto indecifrabile, alcune fonti lo fanno risalire ad una proprietà di 20 iugeri (antica unità di superficie agraria utilizzata dai Romani, equivalente all'area di terreno che era possibile arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi aggiogati, da cui l'etimologia da "iugum", e corrispondente a circa un quarto di ettaro), altre fonti fanno riferimento ad un posto di guardia (Vigilantinus); non è quindi chiara l’origine.
Per certo però nel 1162, dopo la distruzione di Milano ad opera del Barbarossa, gli abitanti del rione di Porta Ticinese furono deportati appunto in questo tratto di campagna, dove il 2 maggio dello stesso anno iniziarono a costruitre un borgo, detto all’epoca di Santa Maria, e successivamente a edificare, con materiali trasportati a mezzo carri trainati da buoi dalla lontata e distrutta città, niente meno che un palazzo imperiale (si notino le similitudini con il borgo di Nosedo, di cui trattai in un precedente articolo).
Il 3 dicembre 1163 i cittadini esuli andarono a prostrarsi sotto la pioggia torrenziale nel fango davanti all’Imperatore che, muovendosi da Pavia a Monza, transitava per quei territori; ciononostante, solo dopo altri quattro anni essi poterono fare ritorno in città; questo fatto coincise con il ritorno alla pace agreste nei poderi del borgo.
Come in altri luoghi della città, anche qui erano numerose le proprietà eccelsiastiche; uno dei possidenti di questa zona fu Filippo da Lampugnano, arcivescovo di Milano dal 14 luglio 1196 al novembre 1206, quando cedette il ruolo a Uberto da Pirovano, prima di morire il 21 novembre 1207. Proprio nel 1206, in procinto di lasciare la cattedra milanese, egli cedette i suoi poderi ad un certo Giovanni da Malzate. Qui la storia si interrompe, per riprendere più tardi, quando un monastero di San Bernardo, nato forse come ospedale, accoglieva una comunità di suore benedettine, le quali, come spesso accadeva nei monasteri di campagna, non si facevano molto riguardo a violare le norme della clausura, fino a suscitare l’ira di Gabriele Sforza. Questi, abbandonata la carriera delle armi e fattosi frate dell'Ordine degli Eremitani, era stato nominato arcivescovo di Milano nel 1454 con il consenso di papa Niccolò V su pressione del fratello Francesco Sforza. Pochi mesi prima di morire (12 settembre 1457), egli le rimproverò aspramente ed in seguito le suore acquistarono buona fama, tanto che ricevettero per questo motivo protezione dai Cistercensi di Chiaravalle.
Ci interrompiamo qui nella storia di Vigentino, che riprenderemo nel prossimo articolo, in cui vedremo anche quali testimonanze siano rimaste dell’antico borgo.